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L'intellettuale e l'artista dinanzi alla storia

Nelle alterne e agitate vicende concernenti lo status del rapporto cultura-politica, riesce relativamente facile tracciare e svolgere il diagramma degli atteggiamenti e delle concrete prese di posizione da parte degli artisti, di intellettuali e di operatori culturali in genere. A momenti di interesse, di adesione e, insomma, d'intensa partecipazione, hanno fatto e ancora continuano a far seguito contraggenio e supponenza, interessate afasie e cerebralismi di specie sofistica: il tutto a segno di circoscrivere un'impossibile autonomia, al fine di erigersi a coscienza del tempo, per non respingere con facili e accorti alibi un legame con la storia e con la realtà che, di fatto, infrange il cerchio della mera esperienza individuale. Insomma, l'intellettuale fuoriesce dal suo guscio e abdica alla sacertà della sua torre d'avorio soltanto quando gli strappi della storia s'impongono, a lui come a ogni altro, con tutta evidenza.

Il pessimismo in fondo non s'attenua ove si pensi alle rare e sparute minoranze seriamente intenzionate a fare del proprio bagaglio culturale uno strumento per concorrere alla trasformazione del mondo: semmai, per riprendere una nota formula, esso potrebbe relazionarsi con l'ottimismo di una volontà decisa a cambiare almeno qualcosa. E questo senza perdere la precisa consapevolezza che i legami di soggezione cui costringe la società borghese nelle sue concrete realizzazioni storiche non si sono per nulla allentati. Né, per aver mutato l'apparenza esterna e per aver trasceso le componenti più apertamente repressive, essi sono risultati diversi nella sostanza. A muovere almeno dal XVII secolo, la collocazione subordinata dell'artista rispetto al potere, rispetto alla totalità borghese, è apparsa una costante difficilmente oppugnabile. Permanendo il sistema, le varianti non ne hanno intaccato il livello di coerenza e di funzionalità.

Se il rapporto di sottomissione è distintivo dell'artista e dell'intellettuale in genere in quanto mediatore e trasmittente dell'ideologia della classe dominante, a maggior ragione tutto ciò pare addirsi a quanti abbiano operato nei vari settori delle arti figurative: un tempo, per la schiavitù della committenza e la molestia di illustrare un iconismo edificante e mistificatorio; oggi, a motivo delle astuzie del budget e delle esigenze del mercato. Le differenze possono essere individuate in una opposizione che ha, tuttavia, ragion d'essere soltanto a un livello di superficie: ove, alcuni secoli fa, si aveva l'accortezza di indorare e coprire il prodotto estetico con un velo di ideale (e idealistica) nobiltà, al giorno d'oggi l'imperante e osannata mercificazione non si perita a proporsi per ciò che essa effettivamente è, nella ronde inesausta delle mode e dei recuperi, dei distinguo e delle innovazioni, del futuribile e del datato - il tutto, ovviamente, da consumare al più presto e con il massimo di profitto.

Dinanzi a uno spettacolo non propriamente edificante (ma, com'è noto, la coerenza morale non è l'esatto appannaggio dell'operatore estetico), stanno per fortuna alcuni che, al disegno del potere, hanno opposto le loro scelte; che, alle molteplici alienazioni, hanno saputo contrapporre un'idea e un'immagine dell'uomo non più nei modi e negli schemi della contraffazione capitalistica. Così, per esempio, i surrealisti, che insieme con il sovvertimento delle strutture si erano proposti di cambiare l'uomo; gli espressionisti (si vedano le opere di Grosz e di Otto Dix), che hanno tradotto la loro forza eversiva nell'icastica raffigurazione di una società alle soglie del crepuscolo; o Picasso, che sigla la tragedia del suo popolo in un capolavoro - Guernica - che è come l'emblema di una diversa disponibilità dell'arte rispetto alla storia.

Un altro modo di essere artista e insieme intellettuale fu quello che venne dall'esempio di quanti vissero la Resistenza anche all'interno dello specifico del loro lavoro: non solo per fermare e narrare l'orrore e la violenza (Manzù e Guttuso), la morte e l'eroismo (Leoncillo e Mario Mafai), la giustizia e il coraggio (Les Otages di Jean Fautrier e i Taccuini di Birolli) - visualizzando in arte un grande movimento popolare e separando, anche nella realtà del processo espressivo (Mirko Basaldella), la ragione dall'assurdo, la civiltà dalla barbarie, il sentimento dagli istinti e dalla criminalità - ma tentando di adeguarsi a quella nuova concezione di cultura che si stava allora diffondendo da noi: una cultura per il popolo e nel popolo, secondo il proficuo modello dei Quaderni gramsciani.

Fu quella un'arte di battaglia e di avanguardia che, se corse e pagò lo scotto inevitabile del bozzetto e dell'agiografia, se cioè a un certo punto perdette l'obiettivo della ricerca e della problematizzazione, pure riuscì a essere momento innovante e alternativo. Per la prima volta in Italia l'intellettuale non era più au-dessus de la mêlée: e la cosa fu perlomeno rivoluzionaria per l'impegno e gli intendimenti di fondo, per la carica di passione e la sete di ideologia che ne discesero.

Certo, sappiamo oggi che la realtà è di gran lunga più complessa e dilemmatica e che servono anche strumenti differenti per una sua delineazione in termini critici. Ma, a ben pensarci, le cose dovevano essere tali sin d'allora. Non intenderemmo tornare alle polemiche e alle contrapposizioni dell'ultimo mezzo secolo per dirimere le ragioni degli uni dall'asserto dei loro oppositori, per prendere la difesa delle opere dei primi o dei secondi, o di quanti potrebbero entrare di diritto in questo quadro. Là dove l'evidenza estetica s'imponeva e faceva tutt'uno con la verità politica, dove cioè non si avevano sfasature tra i due piani, il progetto di una nuova forma mentis, di una nuova coscienza, passava direttamente.

A Bertolt Brecht, che scriveva non potersi più fare liriche sugli alberi in tempi tanto orrendi e bui, si collegarono idealmente tutti quelli che ritennero fosse possibile lottare anche all'interno delle sovrastrutture senza la convinzione e la presunzione di poter cambiare il mondo essi da soli; e all'Adorno della morte dell'arte e dell'assurdo di fare arte dopo la notte di Auschwitz - e delle innumerevoli Auschwitz dell'universo concentrazionario borghese - si appellarono quanti stabilirono non doversi fornire alibi all'alienazione, e che solo compito dell'intellettuale, nel chiuso della dimensione del mondo capitalistico, fosse quello di mimare e riprodurre la disintegrazione della sensibilità e la radicale parcellizzazione cui il sistema portava. Come si vede, non è questione di forme e tendenze, di moduli e termini espressivi: o magari è anche questo, ma per ribadire che ogni possibile impegno di conoscenza e demistificazione aveva senso - così come ancora oggi ha senso - unicamente in rapporto a un linguaggio pertinente e funzionale. Ogni problema di scelta linguistica, di opzione stilistica e pratica viene, a nostro vedere, dopo. Dopo cioè che sia stata definita la propria posizione nei riguardi della storia e della realtà sociale, operata una chiara scelta tra oppressi e oppressori, ragione e sfruttamento; dopo che tale attitudine abbia trovato conferma e applicazione nel conio di un coerente e adeguato medium espressivo. Per ripristinare l'unità tra prassi e pensiero e ricomporre i frammenti di una totalità dispersa e sconnessa.

Detto questo, non può tuttavia essere passato sotto silenzio il fatto che, se l'indugio e l'intristirsi nel vietume e nel consueto hanno portato il più delle volte a istanze retoriche e celebrative complessivamente inadeguate, pure la corsa al nuovo a tutti i costi e il compitare rapido dei linguaggi - nell'erronea convinzione che sempre, nella storia dell'arte, possano darsi innovazioni formali a ogni svolta di stagione - sono il più delle volte risultati omologhi alle caratteristiche distruttive e alienanti del sistema; e assai spesso propositi e velleità di mimesi dell'assurdo, previa l'assenza di un discorso e di un linguaggio realmente determinati, sono risultati in ultima istanza integrati e integrabili e di fatto funzionali alle esigenze dell'universo unidimensionale. A meno di credere in un'arte comunque oppositiva per il fatto di essere gestus e atto di rottura.

Una volta si poteva anche presumere che il potere avrebbe sempre e comunque respinto e collocato ai margini ogni linguaggio astruso e diverso. Oggi ci si è agevolmente e graziosamente adeguati: senza tema di smentite, si può dire che esso si pasce addirittura delle stravaganze stagionali e dei moduli à la page, almeno quando essi non accompagnino il gesto e il fare artistico con le opportune mediazioni politiche. Per essere davvero cultura dialettica, cultura alternativa. Ma s'impongono anche altre precisazioni.

Per quanto non pochi intellettuali (tra i quali lo stesso Brecht) abbiano sostenuto che una nuova dimensione culturale e nuovi contenuti possano soltanto dimensionarsi in forme espressive anch'esse nuove - in forme espressive non plasmate o approvate da quel potere cui ci si contrappone - e sebbene una siffatta esigenza appaia comunque applicabile, un'arte avanzata e consapevole non passa necessariamente attraverso l'infrazione e il rovesciamento degli schemi formali stabiliti in precedenza. Allo stesso modo, è in ultima istanza indispensabile che un discorso alternativo debba sostanziarsi di significazioni concettuali immediatamente percepibili - poiché, a rigor di termini e a lume di buon senso, occorre che il messaggio umano e politico che si vuole trasmettere sia colto dai possibili destinatari a patto di voler restare sul terreno di una comunicazione efficace e produttiva, efficace anche e soprattutto da un punto di vista estetico. Il rinvio a sé, in casi siffatti, non ci pare molto funzionale.

Non è possibile apporre apriorismi e ipoteche circa le determinanti meramente formali e che ogni scelta d'ordine espressivo discende da un mutato atteggiamento verso la realtà. Non si è infatti avanzati o progressisti - o rivoluzionari tout court - se si vaglia o si postilla un evento proletario o partigiano; ma lo si è in genere ancor meno se si parte da un ipotetico grado zero di scrittura, poiché esiste di fatto un codice presente a tutti. Il problema è dunque un altro: rifondere l'immagine e la realtà dell'artista, dell'intellettuale, sulla base della storia e della ragione, opponendo all'irrazionale capitalistico un concreto disegno alternativo e ricomponendo nella concretezza della prassi le dissociazioni e i traumi che l'ordine costituito porta in sé.

Dal crogiuolo di tante diramate proposte che ci offre questa singolarissima raccolta, esempi probanti sono le opere Riscossa di Umberto Mastroianni, Sentenza di Aligi Sassu, La primavera è lontana di Alberto Sughi, Quasi un ex voto di Giuseppe Zigaina, documenti eccezionali di un emblematico "realismo concettuale", alieno da fumose problematiche di immedesimazione esistenziale, o di rivelazione di segni e allegorie eterni e immutabili.

Fondati su una piena coscienza storica della realtà, il loro concetto della forma è quello di una rappresentazione soggettiva del vero che si vale, per la formulazione stilistica dell'immagine, tanto degli elementi immediati della percezione, quanto del repertorio sintattico costituitosi nel percorso storico della cultura, e tradotto secondo le esigenze espressive del momento resistenziale.

Per Floriano Bodini, Ennio Calabria, Aurelio Caminati e Valeriano Trubbiani, anche le proprie invenzioni linguistiche sono strumentali e mai definitorie e definitive. La forma è realtà e vita, come è realtà e vita ogni prodotto culturale dell'uomo. La coerenza di questi artisti è dunque d'ordine storico e poetico, e non teorico e stilistico. Ciò è evidente, in primis, nella splendida tecnica mista Imbrigliare il male di Trubbiani: qui la struttura stilistica nasce dall'esigenza di esprimere una data realtà, non la presuppone, né pretende di sostituirsi a essa.

Restando necessariamente operazione linguistica e quindi convenzione nutrita di ogni riferimento culturale, il simulacro si impone, come ha detto Jean Paul Sartre per Giacometti, quale immediata presenza, assoluta realtà.

Comunque sia, nella raccolta "Memorie: cinquant'anni dopo, 1945-1995", queste rivoluzionarie impostazioni di lessico e di forma possono essere grosso modo ricondotte a quattro basilari filoni:

  1. la trasposizione della realtà fisiopsicologica, recepita attraverso la sensazione e l'emozione, nell'autonoma vitalità significante della linea, del colore, della superficie (Paolo Baratella, Sergio Dangelo, Carmine Jandoli, Eleonora Pusceddu, Walter Valentini);
  2. la rappresentazione non dell'elemento fenomenologico, ma della immanente struttura funzionale, plastico-dinamica, della realtà (Davide Boriani, Giovanni Campus, Oki Izumi, Giancarlo Marchese, Mauro Staccioli);
  3. la ricerca del puro simbolo formale significante ma non rappresentativo, che rifletta valori assoluti, costanti razionali e irrazionali dell'essere al di là della determinazione storica, l'armonica struttura universale e il nucleo soggettivo dell'inconscio (Eugenio Carmi, Pietro Consagra, Bruno Munari, Arnaldo Pomodoro, Luigi Veronesi);
  4. la rappresentazione analitica dei fenomeni apparenti e le strutture astrattizzanti senza concatenazione logica, come riflesso magico e ironico, deformante e alienante del vero sensibile, e perciò rivelatore di altri significati (Alik Cavaliere, Fernando de Filippi, Pablo Echaurren, Emilio Isgrò, Giuseppe Spagnulo).

Naturalmente, sia a livello ideologico, sia sul piano della strumentazione formale, si hanno continui trapassi e imprestiti tra queste impostazioni di lavoro. E si dà spesso il caso che il sistema linguistico dell'"una" tendenza sia impiegato da un artista con finalità diverse, o che i vari codici siano fusi.

Così - ad esempio - per Concetto Pozzati e per Emilio Tadini le "forme della vita" passano intatte o quasi attraverso le avversità della storia, con riferimenti mediati alle dimensioni normali e quotidiane dell'universo fondato sull'alienazione e sullo sfruttamento; per Agenore Fabbri e per Giò Pomodoro tale Quellenforschung è invece intaccata da ostilità e violenza e chiude nella sua tipicità i conflitti e le rotture più tragiche.

È in questo caso che la ricerca linguistica diviene analisi della realtà, che la sperimentazione si traduce in produzione alternativa e oppositiva; è così che i momenti della denuncia (Tutte le resistenze del mondo di Bruno Caruso e La risiera di San Sabba di Bruno Rinaldi) e della condanna (Il Carro di Argos di Gianni Bertini e Martirio di Luigi Mainolfi), della lotta (Bella ciao di Pietro Cascella e Viva la Resistenza di Carlo Ramous), della propaganda (Bandiera per la Resistenza di Lucio Del Pezzo e Vinceremo di Mimmo Rotella) e della stessa commemorazione (Per la libertà di Italo Antico e Resistenza/Infinito di Gabriele De Vecchi) - esse pure necessarie - si saldano in un modello culturale che è avanzato per il fatto di porsi in tal modo al servizio della classe al di là di ogni demagogia, in una opposizione culturale che è poi ripensamento in profondo del proprio ruolo e delle proprie funzioni sia per il tramite specifico, sia nella collocazione consapevole e attiva all'interno delle lotte di struttura. È ancora questo a dare senso e legittimità a una esposizione di opere d'arte che voglia soprattutto porsi a momento di rifiuto e ripulsa del fascismo, dello sfruttamento e dell'alienazione.

Floriano De Santi